Clay Collera: Una “Non Intervista” A Un Giocatore Di Frisbee

So giá che non mi permetterá mai di intervistarlo: troppo chiuso, il nostro Clay, e a modo suo “pudico” per esporsi a delle domande. Specie fatte da me, che lo conosco da troppo tempo e non posso, neanche con tutta la volontá del mondo essere “obiettiva e distaccata”.

CosÏ, non mi resta che “raccontarlo”, e lasciare ad altri, pi˘ fortunati di me, l’onore di “intervistarlo”.

Ho conosciuto Clay nel 1981: era inverno, e lui giocava in spiaggia, con amici in comune. Giocava a frisbee, quando il frisbee per me non era nulla, solo un disco di plastica. Lui e i suoi amici giocavano a D.D.C., una pratica assolutamente sconosciuta a Rimini.

Era una di quelle giornate speciali, che mi fanno amare la mia cittá: fredda, ma non abbastanza da farci stare chiusi in casa, e sulla spiaggia, libera da ombrelloni e dal casino tipico dell’estate, c’eravamo solo noi, i riminesi, a riappropriarci di un luogo speciale, dove camminare, piano, sulla riva, o parlare, al riparo delle cabine, sotto un sole che sembra un regalo.

Ero con una mia amica, che mi ha presentato tutti, e Clay, era esattamente come adesso: come se, in qualche modo, avesse giá deciso di essere cosÏ, e fedele a se stesso, non Ë pi˘ cambiato.

Non Ë scattato subito il “fulmine” fra noi, ma sicuramente giá qualcosa ci accomunava: cosÏ, la sera stessa siamo usciti insieme, con i nostri amici in comune, ed in un pub Clay ha cominciato a parlarmi di frisbee. Di un mondo tutto particolare e sconosciuto, di un gioco che aveva visto per la prima volta in televisione (nel 1976) e lo aveva conquistato, per la sua magia, per il senso di libertá assoluta, per la poliedrica possibilitá di gioco. Nella nostra prima serata insieme, Clay mi ha parlato di Milano, dove aveva trovato altri amici frisbisti, dove aveva disputato le sue prime gare, e della California, dove, nel 1981 era andato a scoprire i veri campioni e nello stadio di RoseBowl aveva conosciuto quelli che sarebbero diventati i suoi miti: Dan Stork, i fratelli VelasquezÖ.

Mi aveva parlato del giornalino fatto a Milano “De Italico Frisbi” dove i ragazzi parlavano delle gare, ed insegnavano le tecniche e le specialitá del frisbee.

Mi sembrava un po’ strano, il tutto, ed io, assolutamente anti-sport, completamente immersa in un mondo diversissimo dal suo, fatto di lunghe giornate con gli amici a parlare di politica e libri, non mi sentivo molto attratta da questo mondo. Eppure qualcosa c’era in tutta quella storia, che mi affascinava: ed era lui, Clay, ed il suo spirito assolutamente libero.

Abbiamo continuato a vederci, insieme agli amici, e Clay, nel modo che tutti conoscete, ha cominciato a lanciarmi il frisbee. Era un attrezzo infernale, andava esattamente dove non doveva andare, volava come un boomerang quando gli chiedevo di andare dritto, mi faceva male alle dita, quando mi arrivava addosso. Ma quando Clay lo usava, ecco che quel pezzo di plastica odioso diventava poesia. Perché lui lo amava, ed il frisbee sembrava corrispondere, e si fondevano, il frisbee lo avvolgeva, aspettava che lui finisse una piroetta per ritornare sul suo dito, attendeva che lui si alzasse in volo per ricadere dolcemente nella sua mano, in una presa perfetta.
Eravamo un gruppo di amici, avevamo 20 anni e voglia di stare insieme, e cosÏ, insieme, abbiamo cominciato a giocare a frisbee.

Clay era il nostro capo, anche se lui non ha mai amato esserlo: come tutti i capi carismatici, non aveva bisogno di chiedere, urlare, comandare: bastava che ti guardasse e tu, semplicemente, facevi. Solo questo mi ha portato a giocare. Io, che la parola sport l’avevo semplicemente messa in un angolo, con fisica e chimica e scienza dell’alimentazione: parole che appartengono alla vita, ma potevo benissimo farne a meno, io che potevo starmene in un angolo della spiaggia a leggere un libro ed ero la persona pi˘ felice del mondo, io ho cominciato ad allenarmi.

Clay, non ha mai chiesto niente. Semplicemente, ha fatto. Con il suo modo dolce, con il suo sorriso, e, pi˘ di ogni altra cosa, con la sua incredibile volontá ferrea, ha creato il nucleo storico di frisbee a Rimini.

Eravamo in pochi, all’inizio: troppi pochi per giocare ad Ultimate, e cosÏ, ci siamo dedicati alle discipline overall.
Se parlo di Clay, non posso non parlare di Bibo. Era lui, diciamolo, il “fidanzato”. Con lui passava ore ed ore a giocare a freestyle, a creare routines, a scambiare pensieri.

Clay e Bibo sono stati la coppia storica nel freestyle italiano. Erano perfetti, insieme. Erano bellissimi. Il gioco veloce, potente di Clay si fondeva nell’eleganza di Bibo, nelle sue pose artistiche: piccolo e dinamico Clay, alto e dinoccolato Bibo. Chi si Ë perso quella parte di “tempo”, si Ë perso la storia del freestyle riminese, e, probabilmente, una delle parti veramente esaltanti del frisbee in Italia.

Con Bibo, Clay ha partecipato ai primi campionati internazionali in Europa: erano la coppia in freestyle, in D.D.C. Si allenavano per Discathon, a sospensione, a TRC.
E farneticavano di andarsene a vivere in America, a San Francisco dove, chissá perché, doveva esserci il “non plus ultra” della vita di un frisbista.

Ma oltre a Bibo, c’era la Dona. Era la fidanzata di Bibo, lo Ë stata per 6 anni, i migliori anni della storia “nascente” del frisbee a Rimini. Se Bibo era il compagno storico di Clay, la Dona era la vera giocatrice femminile di frisbee. Completa, potente, incredibile: quello che non era io era la Dona: fatta per lo sport. Non tanto per il freestyle (anche se anche lÏ ha vinto i suoi bei tornei), la Dona era una potenza in tutte le discipline del frisbee: purtroppo, eravamo noi 2 le uniche ragazze, cosÏ, ci siamo trovate a giocare insieme a freestyle e D.D.C., dove ci siamo divertite come delle pazze, ma dove, ovviamente, lei non Ë mai potuta emergere completamente, visto che io, velleitá sportive non ne ho mai avuteÖ

Poi c’era Baldo, il grande Baldo, silenzioso e coriaceo, Baldo era una forza in sospensione e in golf, dove con tiri precisi e assassini non aveva rivali.

Clay, nei primi anni della nostra storia, era indissolubilmente legato al gruppo: eravamo noi 5, appunto, ed era come se fossimo una entitá unica, nonostante le diversitá fisiche e non solo.

Dobbiamo aspettare qualche anno, e 3.000 persone passate come meteore nel mondo nascente del frisbee, per arrivare ad altre figure storiche: Jumpi, Michele Mengucci, Lele, il fratello di Baldo, Beppe Carpi, ecc. arrivavano nuove persone, e con queste, la possibilitá di poter giocare anche ad Ultimate. Nasceva la seconda pagina della storia del frisbee, quella che avrebbe portato alla nascita del Cota Rica, delle Tequila Boom Boom, e poi via, a salire vertiginosamente, con tornei che ci portavano ogni anno in giro per l’Europa, Germania, Svezia, Norvegia, Austria, FranciaÖper approdare al PaganelloÖ
Ma questa Ë la storia di Clay, e non del frisbee riminese, anche se, alla fine, sono la stessa cosa. CosÏ, torniamo a lui.
Se Clay Ë ora il Clay che conosciamo, Ë grazie alla sua incredibile volontá. Ma, mi piace pensare, anche grazie a noi che lo abbiamo sostenuto sempre.

Quando, poi, ci siamo “fidanzati” (1982) io ero completamente dentro il frisbee.

Lo giocavo, magari male, (ed ho una bella collezione di “ultimi posti” conquistati, nel mio Albo d’Oro), ma lo amavo, il frisbee, completamente. E lo “vedevo” in prospettiva, in maniera diversa, come Clay, ancora, non lo aveva realizzato. Mentre lui si allenava, e superava sempre i limiti del giorno prima, io riuscivo a vedere le potenzialitá del freestyle.
Spettacolo.

La gente si fermava a guardarlo, quell’essere solitario che, con il suo compagno, nelle giornate pi˘ fredde dell’inverno, roteava il frisbee sulla spiaggia, o sul Porto di Rimini. La gente applaudiva, quando Clay e Bibo, alla fine di un lungo esercizio strappato al vento, lo concludevano, stoppando il disco di plastica sotto una gamba tesa, alla fine di un roller a due, al termine di un volo plastico.
Spettacolo.

Clay non accettava l’idea. Non accettava che il freestyle, che per lui era libertá pura, era librarsi su una spiaggia deserta, o in una piazza vuota, nel centro storico, sotto la luce giallastra dei lampioni, dovesse “svilirsi” in uno spettacolo.
Eppure, io ero dell’idea che il freestyle, quel freestyle non dovesse appartenere solo a loro. Era troppo bello. Era un patrimonio che doveva appartenere a tutti.

Ecco, in questo io e Clay siamo distanti anni luce.

Alla fine Clay ha fatto spettacoli, abbiamo viaggiato molto, con quel pezzo di plastica, in piazze di altre cittá, in discoteche fumose, in Feste dell’Unitá. Quando Bibo ha fatto scelte diverse, e si allontanato dal freestyle, sono stata io la compagna di Clay, nelle tournËe: panico da palcoscenico, ansia da “caduta frisbee”, sorrisi forzati e sudore a mille, mi sono appartenuti: ma ero la “spalla” di Clay, e tutto si risolveva al meglio, alla fine.

Poi, dopo di me, Mario Ë stato il compagno di Clay, ed anche lui ha girato con noi, a portare in giro per l’Italia, spettacoli e la conoscenza di un gioco nuovo, libero, pulito.

Ma, ancora adesso, che Clay Ë completamente uno show-man, che fa Tour per le marche pi˘ importanti, ancora adesso non sono sicura che sia stata la scelta giusta.

Ero io quella che credevo nello spettacolo. Clay, no. Clay credeva nella competizione, vero sportivo, lui che ha giocato a calcio, ha fatto i 100 metri, lui che, qualunque attivitá sportiva affrontasse ne usciva vincitore.

Ma Clay, Ë, appunto, una roccia.

E se magari, un’altra persona avrebbe affrontato lo spettacolo come una forzatura, lui Ë riuscito a farne qualcosa di diverso.

Quando si esibisce, Clay Ë il medesimo personaggio che espleta una competizione. Sa dove arrivare, sa come sbalordire. Ma sa anche che la gente “sente” quando ti risparmi. E lui, non lo fa mai. Che ci siano 10 bambini, o 3.000 persone, il frisbee diventa nelle sue mani un attrezzo dinamico. E se anche gli esercizi sono costruiti a “tavolino” , e provati mille volte con o contro un vento marino, ecco che sul palco sembrano frutto di un’improvvisazione, di un pensiero fulmineo, di un attimo di pazzia.

Clay non ha smesso di giocare, mai. Non ha smesso di divertirsi. Non ha smesso, in fondo di amare il divertimento.
E questo emerge negli spettacoli, ma anche nelle gare. Dove anche gli avversari (anche se, nel frisbee, la parola “avversari” assume un contorno diverso), anche la giuria, vengono catturati dall’energia che Clay irradia.

E riesce a “togliere” dalla gara stessa quel senso di oppressione e stress, e ridare la giusta prospettiva di “generositá e divertimento”.

Clay si ama. A pelle, subito. Ha qualcosa che attira la gente. I bambini lo adorano, i cani gli vanno incontro per farci accarezzare, la gente lo fotografa, lo attornia.
Ha quel carisma che pochi hanno, che viene dalla spontaneitá, dalla voglia di giocare, dal “bambino che abbiamo dentro” tipicamente pascoliano.

Clay Ë quello che tutti conosciamo, ma, come tutti, ha un “lato oscuro”: che sa di delusione per una squadra “persa”, per un compagno che non c’Ë pi˘, per un freestyler che lo ha abbandonato senza una parola.

Non recrimina, non si incazza, come faccio io: non Ë nel Clay-style. Lui va avanti, e abissa le delusioni, le affonda in una giornata ventosa, in un esercizio impossibile, in una logica che non mi appartiene.

Ma, in fondo, forse, amo Clay in maniera totale perché non mi apparterrá mai:
lui Ë l’uomo che gioca con il frisbee, e come mi disse una volta suo padre:
“mi dispiace, ma sarai sempre il secondo amore di Clay: il primo non Ë una donna, Ë un pezzo di plastica”.
Parole sante.

Lui

2 Replies to “Clay Collera: Una “Non Intervista” A Un Giocatore Di Frisbee”

  1. Stavolta m’hai commosso, Lui!
    Che bella storia!
    Che Attori romantici!
    Che vita… tutta rotante attorno all’Amore, all’Amicizia e ad un disco di plastica.
    Potere del frisbee!
    Grazie per questo spezzato, nel quale magari possiamo ritrovare anche alcune riflessioni importanti sulla nostra vita!
    Ti fris is to bee!
    Luca "Airbrusher" Gagliardi
    PS: e se Fabio Sanna

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